Torno ora da Barcellona, Catalogna - Spagna? -. Anche in Spagna ferve la campagna elettorale, così viene facile fare dei confronti, almeno superficialmente.
In Spagna, lo sappiamo, la Chiesa è intervenuta a gamba tesa nella competizione, accusando il governo Zapatero di tutto e di più. Sappiamo anche che Zapatero non ha le remore dei nostri politici: ha addirittura convocato il nunzio apostolico per protestare. In Spagna, che ha una storia diversa dalla nostra, la linea di confine tra la Chiesa (reazionaria) e il mondo laico (repubblicano e progressista) è ancora lì dove l'ha lasciato la Guerra Civile. (Non che i cattolici seguano automaticamente le indicazioni elettorali dei vescovi, beninteso).
Vista da Barcellona, comunque, la politica spagnola pare avere altre priorità, che risiedono soprattutto nelle questioni nazionali: baschi, catalani e altre più piccole e meno note comunità, alla ricerca di una qualche forma di semi-indipendenza. La domanda del momento è: Zapatero riuscirà ad avere i voti per governare senza l'appoggio dei nazionalisti?
Ora, da noi l'unica questione sub-nazionale di peso è stata quella altoatesina, sostanzialmente risolta già ai tempi di De Gasperi, e comunque di limitato impatto. L'unico autonomismo potenzialmente sensato, quello siciliano, s'è disperso prima d'avere un qualche peso. La Lega ci ha provato, ma mancavano le condizioni antropologiche e così s'è ridotta a un querulo, quanto sterile, cattivismo nordista.
Diversa la situazione catalana. Lì c'è una lingua, che - anche sotto il franchismo - era la lingua sacra della messa. C'è un sentimento nazionale vivo da più d'un secolo, a cui la borghesia catalana non ha mai rinunciato, e neanche il proletariato organizzato da socialisti e anarchici. C'è una capitale riconosciuta, Barcellona, di un territorio abbastanza ben delimitato. Ci sono le competenze e le intelligenze.
La Catalogna gode di una parziale autonomia, che è già autonomia amministrativa e linguistica, ma non ancora autonomia fiscale piena.
Un effetto palpabile dell'autonomismo è un forte allentamento della coesione sociale, nel confine che separa i catalani-catalani da quelli immigrati da altre regioni. Questi ultimi si sentono trattati da stranieri in patria. I primi risentono la diffidenza di questi ultimi che, del resto, trattano un po' da catalani di serie B. Un effetto è che la partecipazione alle elezioni amministrative è bassa poiché - lamentano i nazionalisti - i neo-catalani (che sono tanti) non s'interessano alle cose del posto in cui vivono.
Nel corso degli anni ho visto, nel giro dei colleghi, come il progredire dell'autonomia abbia prodotto anche la fine di amicizie, il sospetto tra persone che prima avevano rapporti trasparenti, il moltiplicarsi dei piccoli screzî quotidiani e il diminuire della comunicazione. Uno stato di cose che, per l'appunto, tocca la quotidianità di tante persone obbligate comunque a convivere e che costituisce, mi sembra, un problema di fatto insolubile nella peraltro scoppiettante, ben amministrata, globalizzata Barcellona.
(autore: Nicola)
In Spagna, lo sappiamo, la Chiesa è intervenuta a gamba tesa nella competizione, accusando il governo Zapatero di tutto e di più. Sappiamo anche che Zapatero non ha le remore dei nostri politici: ha addirittura convocato il nunzio apostolico per protestare. In Spagna, che ha una storia diversa dalla nostra, la linea di confine tra la Chiesa (reazionaria) e il mondo laico (repubblicano e progressista) è ancora lì dove l'ha lasciato la Guerra Civile. (Non che i cattolici seguano automaticamente le indicazioni elettorali dei vescovi, beninteso).
Vista da Barcellona, comunque, la politica spagnola pare avere altre priorità, che risiedono soprattutto nelle questioni nazionali: baschi, catalani e altre più piccole e meno note comunità, alla ricerca di una qualche forma di semi-indipendenza. La domanda del momento è: Zapatero riuscirà ad avere i voti per governare senza l'appoggio dei nazionalisti?
Ora, da noi l'unica questione sub-nazionale di peso è stata quella altoatesina, sostanzialmente risolta già ai tempi di De Gasperi, e comunque di limitato impatto. L'unico autonomismo potenzialmente sensato, quello siciliano, s'è disperso prima d'avere un qualche peso. La Lega ci ha provato, ma mancavano le condizioni antropologiche e così s'è ridotta a un querulo, quanto sterile, cattivismo nordista.
Diversa la situazione catalana. Lì c'è una lingua, che - anche sotto il franchismo - era la lingua sacra della messa. C'è un sentimento nazionale vivo da più d'un secolo, a cui la borghesia catalana non ha mai rinunciato, e neanche il proletariato organizzato da socialisti e anarchici. C'è una capitale riconosciuta, Barcellona, di un territorio abbastanza ben delimitato. Ci sono le competenze e le intelligenze.
La Catalogna gode di una parziale autonomia, che è già autonomia amministrativa e linguistica, ma non ancora autonomia fiscale piena.
Un effetto palpabile dell'autonomismo è un forte allentamento della coesione sociale, nel confine che separa i catalani-catalani da quelli immigrati da altre regioni. Questi ultimi si sentono trattati da stranieri in patria. I primi risentono la diffidenza di questi ultimi che, del resto, trattano un po' da catalani di serie B. Un effetto è che la partecipazione alle elezioni amministrative è bassa poiché - lamentano i nazionalisti - i neo-catalani (che sono tanti) non s'interessano alle cose del posto in cui vivono.
Nel corso degli anni ho visto, nel giro dei colleghi, come il progredire dell'autonomia abbia prodotto anche la fine di amicizie, il sospetto tra persone che prima avevano rapporti trasparenti, il moltiplicarsi dei piccoli screzî quotidiani e il diminuire della comunicazione. Uno stato di cose che, per l'appunto, tocca la quotidianità di tante persone obbligate comunque a convivere e che costituisce, mi sembra, un problema di fatto insolubile nella peraltro scoppiettante, ben amministrata, globalizzata Barcellona.
(autore: Nicola)
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